È stato un anno complesso.
Un anno che ha messo e sta mettendo tutti a dura prova e che ha reso tutti uguali, sembrerebbe, di fronte al virus.
In questo difficile anno, che per Parma doveva essere quello della Cultura, abbiamo visto la Natura manifestarsi in una delle sue forme, la più semplice e invisibile.
Così invisibile, minuscola e semplice da fermarci.
Abbiamo passato mesi difficili di fronte all’ignoto, l’imprevedibile, lo sconosciuto, la malattia e la morte.
Nell’ultimo anno le più profonde e arcaiche paure dell’uomo si sono materializzate a livello mondiale.
Come prima reazione: il panico o la negazione, tipici dei momenti di shock, e, a seguire, il controllo visibile tra lockdown e tracciamenti di pazienti positivi e la ricerca della soluzione.
È scattato l’istinto di sopravvivenza e ognuno di noi ha visto di sé quale personale reazione ha avuto di fronte alla portata di questo evento.
Un anno tra la nascita e la morte, un anno ognuno con le proprie Ombre lì di fronte a sé, nude e senza possibilità di compensazione con nessun mezzo esterno.
Un anno che necessita obbligatoriamente una riflessione aperta sull’ineluttabilità della morte e l’accettazione dell’incertezza e un’apertura al dialogo con l’irrazionale.
È il tempo in cui ognuno può far nascere e coltivare questo dialogo con l’”irrazionalizzabile” di Morin, che altro non è se non ciò che non può essere razionalizzato e compreso, l’inconscio personale e collettivo se vogliamo dirlo in termini junghiani.
Fermiamoci un attimo e riflettiamo su questo momento storico: siamo nel mondo dell’iperconnessione della globalizzazione, della tecnologia sofisticata e rapida, delle conoscenze rivoluzionarie su tutti i campi del sapere.
Ed ecco che irrompe proprio in questo momento il coronavirus: viene dal mondo animale? È causato dal surriscaldamento globale? Ecco che la mente cerca subito di analizzare il problema per risolverlo.
Sorge subito la domanda sul perché e la ricerca delle cause.
Quello che è importante che sentiamo e ascoltiamo è invece ciò che tutti abbiamo riscoperto: la vulnerabilità del corpo e della psiche di fronte all’imprevedibilità della vita.
È allora prezioso chiederci di nuovo chi siamo e riflettere sulla nostra natura umana, sulla nostra relazione con la Natura e sul nostro posto in relazione alla natura stessa.
Abbiamo visto come, se noi ci fermiamo la natura avanza di nuovo, i pesci ripopolano i mari, gli uccellini nidificano dove prima c’erano strade trafficate e questo è stato visibile soprattutto nell’emergenza e in #Io restoacasa di marzo e aprile 2020.
Abbiamo notato come il clima sia tornato più allineato ai ritmi stagionali.
Come possiamo notare ciò che accade fuori, osservando e descrivendo ciò che si vede, così è importante che lo sguardo si volga dentro, affinché osservandosi e ascoltandosi si possa ricercare un nuovo equilibrio, ognuno dentro di sé, prima di agire fuori.
Il rischio è che se l’azione avviene per paura – e la paura è stata una delle prime reazioni generali insieme alla negazione – ci si muova automaticamente senza produrre un’azione legata a una comprensione profonda che porti a un reale miglioramento del disagio e della situazione che si sta vivendo e che rispetti il senso profondo e sistemico di questo momento.
Col lockdown abbiamo sperimentato precarietà (cassa integrazione e chiusure forzate), assenza di socialità (distanziamento sociale e chiusura dei locali), annientamento dell’area del piacere e dell’espressività (arte), eliminazione del contatto fisico e mascherine a limitare la visibilità dei volti. Solo gli occhi a dare voce al cuore, lo sguardo ad esprimere furtivamente al mondo chi siamo.
Ed è da queste condizioni di deprivazione che la creatività è la via d’uscita se essa nasce da un ascolto profondo di sé.
Sì perché il vero cambiamento non avviene cambiando la realtà ma cambiando gli occhi con cui la si guarda dice Proust.
Ognuno di noi avrà letto ciò che è accaduto secondo i propri occhiali, perciò è importante che ognuno possa in quest’anno vedere chiaramente che tipo di occhiali porta e scendere nel profondo di sé e ascoltarsi, riflettere, non agire e ritrovare nuove lenti .
Il problema è proprio non avere una visione sistemica della vita in momenti come questi, in quanto il fenomeno è complesso e necessita non un’azione mossa dall’urgenza, ma di una visione più ampia, macroscopica del fenomeno stesso.
Ora sappiamo di più del virus, ma ancor di più una cosa la sappiamo per definizione: i virus mutano per natura. Il che ci porta a dover rivalutare la nostra prima reazione e, a un anno dall’evento, accogliere in noi la vulnerabilità insita nel nostro essere umani e depositare la necessità di controllare qualcosa di non controllabile che avrà il suo decorso, che farà il suo corso indipendentemente da ciò che noi facciamo e che come iniziato avrà un termine.
È più importante in questo momento, a un anno dall’anniversario, che torniamo a occuparci di noi e delle ombre e paure che in noi si sono manifestate e le emozioni che ci muovono dentro, affinchè sia da noi stessi che possiamo ripartire, virus o non virus, perché la morte è ineluttabile e il dialogo con l’incertezza è la via di questo momento storico, il dialogo con l’inconscio, il dialogo profondo e interiore prima di qualsiasi azione nel mondo.
“Non possiamo risolvere i problemi con lo stesso tipo di pensiero che abbiamo usato quando li abbiamo creati.” – dice Einstein – e mi auguro che ognuno di noi possa in questo momento collettivo sentire la propria vulnerabilità e la propria forza e abbia il coraggio di attraversare il confine al limite del proprio caos, dentro di sé e trovi la propria via mantenendo quella specificità individuale che ci rende unici.